Scritti per bambini
Il mistero delle 4 porte
racconto
Quel giorno nella mia scuola, avvenne un fatto assai strano.
Di mattina, come sempre, la maestra Matilde entrò in classe con una decina di libri sotto un braccio e il cappotto nell’altro.
Sbatté la porta chiudendola, si sedette dietro la cattedra, mise gli occhiali e iniziò l’appello. Avevamo tutti molto timore di lei, tanto che quando metteva piede in classe non si sentiva volare una mosca.
“Amurri”, “Presente”, “Bacchetti”, “Presente”, “Borziero”, “Presente”. Di solito, durante l’appello, io la osservavo e fissavo le sue mani magre e il dito indice che scorreva lungo il registro. “Rodano, Rodano… Rodano c’è?” “Sì maestra” risposi con voce tremula e alzando il braccio come una bandiera a mezz’asta.
“Rodano, Rodano” disse la maestra con un ghigno “vediamo se hai studiato la geografia”. Iniziai a sudare freddo e tentai, di ripetere mentalmente ciò che avevo letto soltanto due volte il giorno prima:
…la superficie del Lazio è pari a quella della Toscana, no, forse meno… Il capoluogo lo so, è facile, è Roma, che è anche la capitale… e il capoluogo del Molise? Boh… non lo ricordo… mannaggia, ma proprio me doveva chiamare!
Nel frattempo la maestra Matilde chiuse il registro, chiaro segno che quella mattina avrebbe tartassato di domande solo me. I miei compagni di classe tirarono un respiro di sollievo e si risistemarono sulle sedie ben dritti. Giusy, al mio fianco, ancora boccheggiante, si batté tre volte il petto, incredula per lo scampato pericolo: la maestra Matilde avrebbe potuto chiamare lei, che nel registro era immediatamente prima di me e di cognome fa Rinaldi.
Mentre la maestra Matilde tamburellava le dita sul libro aperto ed io lentamente mi avviavo accanto a lei come vittima sacrificale, si udì un tonfo provenire dall’androne e poi un altro e un altro ancora.
La maestra Matilde si alzò di scatto gettando in aria il sussidiario, che per poco non mi colpì e non fece in tempo ad aprire la porta e a urlare “Ma che succede?” che la porta si staccò e le cadde addosso.
Noi alunni rimanemmo impietriti senza sapere cosa fare. “Ohi, ohi” la maestra Matilde si lamentò come mai aveva fatto. Dal salone esterno sentimmo un gran trambusto “Correte, correte, chiamate il Dirigente Scolastico!”. Antonio il bidello, nel soccorrere la maestra, puntò me col dito indice e mi disse di andare a prendere dell’acqua. Presi al volo un bicchiere dallo scaffale e uscii dall’aula, facendo ben attenzione a non sfiorare la maestra lì adagiata e vidi quel che era accaduto: “Le quattro porte, delle quattro aule, erano cadute una dietro l’altra, l’ultima delle quali addosso alla mia maestra.
Per qualche secondo rimasi ad osservare quella scena apocalittica, finché il bidello Antonio non mi scosse per un braccio e mi disse: “ma che fai? Ti sbrighi? Non vedi che la tua maestra si è fatta male?” Corsi in bagno e feci scorrere l’acqua dal rubinetto e subito portai il bicchiere colmo alla maestra che era ancora lì, seduta a terra con la porta sulle gambe e le mani nelle mani del bidello Antonio.
“Ma come può essere accaduto? Non mi capacito!” urlò il Preside Paciolli appena fu arrivato al piano.
“Ho assistito alla caduta delle porte senza poter far nulla” disse il bidello Antonio, mortificato “Prima è caduta la porta della classe A, poi quella della classe B, poi quella della C, infine quella della D, addosso alla povera maestra Matilde. O, forse, prima la B, poi la C, poi la A e infine la D” cercando di essere il più preciso possibile e guardando teneramente la mia maestra. “Non ha importanza quale porta sia caduta prima e quale dopo” tuonò il Preside. Qualcuno chiami un’autombulanza!”
Nel frattempo gli alunni di tutte le classi, tranne la mia, si erano riversati nell’androne e, silenziosi come mai erano stati, guardarono la mia maestra come fosse stata un extraterrestre. Le maestre del piano, dopo lo stupore iniziale, iniziarono a lamentarsi col Preside Paciolli, dicendo che prima o poi la scuola sarebbe crollata e che solo allora forse qualcuno avrebbe preso provvedimenti.
Da quel giorno le lezioni si svolsero senza porte. La maestra Matilde che fu assente solo per una settimana, rientrò in servizio con una gamba fasciata e un po’ zoppicante. Quell’evento, però, l’aveva cambiata profondamente. Durante l’ora di matematica, sedeva sulla cattedra come mai aveva fatto, mostrando un look del tutto nuovo: jeans, maglietta e scarpe da ginnastica, che le rendevano più comodo camminare.
Interrogando in scienze e in geografia, si appoggiava allo stipite della porta caduta, sorridendo al bidello Antonio, sempre molto premuroso nei suoi confronti. “Maestra Matilde desidera un caffè?” “Antonio, Antonio, lei mi vizia!”
Le insegnanti delle sezioni A, B e C venivano spesso in classe per un motivo o per l’altro. Scherzavano e ridevano assieme alla maestra Matilde, si scambiavano schede, materiali e consigli. Cominciammo a lavorare per gruppi: alunni della A, con quelli della C, alunni della B, con noi della D nelle classi o nel salone antistante. Un giorno addirittura la maestra Matilde ci consentì di dipingere, assieme agli altri bambini delle altre sezioni, le pareti dell’androne, che assunsero un aspetto fresco e primaverile, tappezzate di fiori, farfalle, nuvole, rondini, prato e cielo.
***
Quale fu il motivo per cui caddero le quattro porte non si seppe mai, ma una cosa è certa: quel fatto misterioso di cui ancora si parla molto, cambiò la vita di noi studenti e delle maestre stesse, con buona pace del Preside Paciolli che durante uno dei suoi incontri con i genitori, al quale ero presente anche io, disse: “…la nostra scuola ha raggiunto livelli altissimi nella didattica e nella metodologia. Per l’applicazione del nostro metodo di lavoro a classi aperte, eccellente e di qualità, ho ricevuto anche le congratulazioni del Ministro” e iniziò a leggere una noiosa e lunga lettera. E mentre tutti applaudivano sonoramente, guardai fuori dalla finestra e pensai alle parole pronunciate dal bidello Antonio alla maestra Matilde e a noi alunni il giorno prima, durante la ricreazione, “Cara maestra, carissimi bambini, dietro una porta chiusa c’è un mondo da scoprire, che sia al di qua o al di là.” Io non fui sicura di capire il significato di questa frase, ma sorrisi al bidello Antonio, i cui occhi brillavano di felicità.
Ciccio cuoco
racconto
“Dottor Tacchetti, sono così preoccupata per il mio cucciolo” mamma Riccia telefona al pediatra.
“Cosa succede signora Riccia?” “Mio figlio Ciccio non mangia più, o meglio, mangia solo cibi dolci: lombrichi al cioccolato, coleotteri e bacche zuccherate; nulla più. Non so proprio cosa devo cucinare!” “Signora Riccia, non si allarmi, provi a coinvolgerlo nella preparazione dei cibi. I cuccioli amano molto pasticciare in cucina!”
Quella sera mamma Riccia chiede a Ciccio se ha voglia di aiutarla a preparare uno sformato di foglie, patate e insetti. Ciccio accetta molto volentieri. In piedi, sulla sedia, accanto alla sua mamma, è felice. Nella grande ciotola impasta patate, foglie sminuzzate, insetti catturati il giorno prima, sale e olio, per ammorbidire il tutto. “Mmm, che buon odore mamma! “ dice Ciccio, annusando lo sformato che è pronto per essere messo in forno. “Posso dire a papà che l’ho cucinato io?” “Certo, tesoro mio. Hai preparato tu questa delizia!” Ciccio orgoglioso aiuta la sua mamma a rimettere tutto a posto e ad apparecchiare la tavola. Si siede in terra dinnanzi al forno e guarda attraverso il vetro il suo primo capolavoro in cucina. Allunga una zampina, ma la mamma lo frena: “No Ciccio, scotta, è meglio che ti allontani un po’ ”. Ciccio impaziente inizia a fare domande: “Quanto manca mamma?” “Quanto manca per cosa?” chiede la Riccia “Alla fine dello sformato… alla temperatura…insomma quanto ci vuole perché sia pronto?” “Ci vuole il tempo che ci vuole”. Questa risposta non soddisfa Ciccio che incalza “E qual è il tempo che ci vuole?” “Io mi regolo infilando dentro una forchetta” risponde la mamma. Ciccio pensieroso inarca gli aculei e sgrana gli occhi, perché non capisce come una forchetta possa definire il tempo di cottura di uno sformato. Osserva il grande orologio appeso alla parete, poi sposta lo sguardo sul portaposate: forchetta-orologio, orologio-forchetta…nessuna somiglianza, né nella forma, né nel colore. Mah!
Dopo un po’ la mamma asciuga le zampette su uno strofinaccio, afferra una forchetta e apre il forno, dal quale esce una calda nuvola di vapore. Ciccio Riccio guarda ancora lo sformato che ora ha la superficie color oro. È pronto mamma?” “Adesso vediamo” dice la riccia che, con abile mossa, allunga una zampetta e infila la forchetta nel soffice preparato. “Ecco fatto, è pronto. Ora dobbiamo solo aspettare che si raffreddi”. Da cosa la mamma abbia capito che lo sformato è pronto Ciccio proprio non lo sa. Certo è che quello della forchetta rimane un mistero. “Mamma è arrivato papà!” Ciccio sente infilare le chiavi nella serratura “Corri ad aprire”, lo esorta la sua mamma. Il signor riccio non fa in tempo a girare la chiave che Ciccio già gli apre la porta e gli salta al collo. “Papà! Papà!” “Il mio campione!” dice papà riccio tirando a sé e baciando suo figlio. “Vieni, ho una sorpresa per te” Ciccio afferra la zampa del papà e lo trascina in cucina. “Guarda” indicando il forno con gran soddisfazione “quello l’ho preparato io!”. Papà riccio, lancia un’occhiata d’intesa a mamma riccia che sfregando le zampine dice: “A tavola, su a tavola, non vedo l’ora di gustare questa delizia!” Mamma riccia seduta accanto a papà riccio sussurra: “Il dottor Tacchetti mi ha dato davvero un buon suggerimento. Credo che stasera Ciccio mangerà.” “Allora tesoro, vieni, siediti al tuo posto” esclama mamma riccia con dolcezza. “Mamma, stasera voglio per voi una cena indimenticabile. Non preoccuparti per me, ho provveduto a tutto: io andrò da Rudy che mi aspetta, per sgranocchiare insieme noci tostate e meringhe al cioccolato. Gustatevi lo sformato che ho preparato per voi con tanto amore.” E così dicendo si avvicina ai genitori esterrefatti, li abbraccia, li bacia teneramente e se ne va.
Nuvolette sbarazzine
poesia
Nuvolette sbarazzine
bianco latte o grigioline
vanitose col tutù
fan saltelli lì nel blu.
Se si tingono di rosa
sul calare della sera,
tempo bello fan sperare
a chi ha voglia di giocare.
Vento soffia a più non posso,
trema il mare or che è mosso,
nuvolette birichine
fanno festa con le ondine.
Se di umore sono nere
meglio andarsi a riparare,
che lontano già si vede:
pioggia sta per arrivare!
Preghiera al sole di un pettirosso
poesia
Sole che fai capolino,
splendi sincero e scalda un pochino
queste zampette tutte gelate,
le piume, le ali bagnate.
Porta i tuoi raggi
sul tetto innevato,
lì sulla torre,
sul campo ghiacciato.
Fa’ che gli insetti,
i ragni e i vermetti
escano fuori
senza sospetti.
Sempre più vuoto
il mio pancino
chiede un sol pasto
almeno al mattino.
Fa’ che l’inverno
passi più in fretta,
dona calore
a chi ti aspetta.